L’empatia non si spiega e la leadership non si insegna
di Marco ZAMBONI - Allenatore d'impresa
Il parere dell’esperto

C’è una differenza sottile, ma sostanziale, tra dire “capisco quello che provi” e dire “sento quello che provi”. È una differenza che attraversa il confine tra la mente e il cuore, tra la simpatia e l’empatia, tra l’idea e l’esperienza.
E come spesso accade, è nel sottile che si nasconde la verità più profonda.
La simpatia è un gesto di vicinanza intellettuale. Implica uno sforzo cognitivo per mettersi nei panni dell’altro, ma con una distanza di sicurezza. “Capisco il tuo dolore” significa che ho osservato, ho pensato, ho interpretato. Ma resto fuori. È come guardare la pioggia dalla finestra, al caldo. L’intenzione è buona, ma l’esperienza è altra cosa.
L’empatia, invece, è un entrare in risonanza. Non “capisco” ciò che provi. Lo sento. Lo sento nel mio corpo, nei miei silenzi, nei punti ciechi del mio vissuto. Non lo interpreto, lo accolgo. Non lo analizzo, lo condivido. L’empatia non pretende di spiegare, ma sa stare. Non ha bisogno di parole brillanti, si manifesta nel rispetto del ritmo dell’altro, nella capacità di essere presenti senza invadere.
Questa differenza si riflette in modo sorprendente anche nella relazione con il vuoto, quella condizione tanto temuta quanto incompresa, spesso confusa con il nulla, il vuoto di senso, l’assenza di valore. Ma il vuoto, in molte tradizioni e culture, è tutt’altro, ovvero è spazio disponibile, possibilità pura, silenzio fertile.
Come per l’empatia, anche il vuoto non va “capito”. Chi cerca di afferrarlo con la mente, finisce spesso per riempirlo di concetti, spiritualismi in scatola, slogan motivazionali. Ma così facendo, lo svuota della sua natura più autentica. Perché il vuoto, come l’empatia chiede presenza, non spiegazioni.
Provare il vuoto in una meditazione, in un momento di smarrimento creativo, in una pausa non programmata, significa sostare in uno spazio senza appigli. Ed è proprio lì, in quella sospensione, che si apre una porta. Quando smettiamo di voler controllare, comprendere, dominare, allora iniziamo davvero a sentire.
Lo stesso accade nell’incontro empatico, quando smettiamo di cercare la frase giusta, il consiglio brillante, la risposta pronta, allora possiamo essere vuoti. Ma non un vuoto freddo o distante.
Un vuoto accogliente. Uno spazio in cui l’altro può depositare ciò che ha dentro, senza il rischio di venire subito riempito dal nostro ego.
Empatia e vuoto, in fondo, parlano la stessa lingua. Sono due modi per dire, ti vedo, ti sento, e non ho bisogno di aggiustarti per starti accanto.
E chissà, forse anche noi avremmo meno bisogno di riempirci di spiegazioni, se imparassimo a fidarci un po’ di più del silenzio. Non come assenza, ma come luogo accogliente. Una vera presa di coscienza della leadership … la nostra non quella suggerita nei libri.
Buona vita!!
